Farmaci, tecnologie e “riserva cognitiva”. L’impegno dei ricercatori contro una patologia complessa. Il punto con il Direttore Scientifico dell’IRCCS Santa Lucia
La ricerca contro l’Alzheimer continua. È questa la conclusione alla quale sono arrivati tutti i dibattiti animati negli ultimi giorni dalla notizia che il colosso americano Pfizer ha gettato la spugna, abbandonando ogni sperimentazione per lo sviluppo di nuovi farmaci contro la patologia. Ma la domanda sorge spontanea: dopo tanti anni la ricerca contro questa patologia a che punto sta? “Potrei obiettare sul fatto che la ricerca contro l’Alzheimer prosegua già da tanti anni” – precisa il Prof. Carlo Caltagirone, Direttore Scientifico della Fondazione Santa Lucia IRCCS, Ordinario di Neurologia dell’Università di Roma Tor Vergata e uno dei massimi esperti in Italia per quanto riguarda Alzheimer e le altre malattie neurodegenerative – In realtà, sulle malattie neurodegenerative si è acceso un forte dibattito e si sono moltiplicati i finanziamenti alla ricerca solo con il Decennio del Cervello tra il 1990 e il 2000. C’è stato in passato un grave errore di valutazione su questa patologia e quindi sulle risorse investite per combatterla. Questo ha provocato un ritardo, per esempio rispetto alla ricerca sul cancro, nonostante le due patologie presentino livelli di complessità simili e richiedano un impegno di pari grado sul fronte della sperimentazione”.
La complessità nasce dal fatto che, come per i tumori, anche nel caso dell’Alzheimer la causa della malattia non è unica. “C’è sicuramente una componente genetica che da sola ci impone già di distinguere tra famiglie diverse di Malattia di Alzheimer – spiega il Prof. Caltagirone – Ci sono poi cause ambientali dovute a traumatismi, condizioni di lavoro gravose e in generale una vita sottoposta a forti stress. Pensiamo alle cosiddette forme di ‘demenza pugilistica’ o quelle che interessano i giocatori di football americano oppure ancora l’atrofia ippocampale che si rileva in persone sottoposte a molto stress. Non in ultimo giocano un ruolo processi neuroinfiammatori e quindi anche disturbi del sistema immunitario. Una molteplicità di fattori che interessano tutti o in parte e in forme diverse ogni singolo paziente. Da anni insisto che non è corretto parlare al singolare di Malattia di Alzheimer”.
Analizzando il lavoro dei ricercatori della Fondazione Santa Lucia, oggi IRCCS di riferimento in Italia, in termini di produttività scientifica, nell’ambito delle neuroscienze, si osservano fondamentalmente tre fronti attivi nella lotta contro “le Malattie” di Alzheimer. Il primo resta quello farmacologico, con trial clinici da tempo in corso e nuovi che partiranno anche nel 2018. Qui gli sforzi si stanno innanzitutto concentrando sull’individuazione di anticorpi monoclonali sintetizzati in laboratorio, che siano in grado di attaccarsi alle placche di beta-amiloide depositate nel cervello del paziente e distruggerle. Immaginiamoci la proteina di beta-amiloide come il pezzo di un puzzle che presenta una specifica forma. Sviluppare un anticorpo monoclonale capace di agganciarla e distruggerla significa trovare l’altro pezzo del puzzle che si combina esattamente con le strutture di quella proteina.
Altri obiettivi della ricerca farmacologica sono oggi il potenziamento dell’attività dei neuroni ancora sani e la riduzione dei processi neuroinfiammatori. Un filone di ricerca farmacologica particolarmente nuovo è infine rivolto allo sviluppo di un altro tipo di anticorpi monoclonali che, invece di colpire le placche di beta-amiloide, sono chiamati a combattere gli accumuli patologici nel cervello di proteina Tau. Anche questa proteina, che come la beta-amiloide nel paziente sano serve a supportare i processi neurofisiologici che avvengono nel nostro cervello, nel paziente con Malattia di Alzheimer tende a concentrarsi e a “raggrumarsi”, formando in questo caso non placche, ma formazioni che gli scienziati chiamano “gomitoli”.
Ma non è solo il fronte farmacologico ad animare la lotta contro l’Alzheimer. Come ogni guerra moderna, contano anche le tecnologie. C’è da una parte l’impiego di strumenti di neuroimaging come la risonanza magnetica per “fotografare” in modo sempre più dettagliato le aree del cervello, usando quindi questo strumento per individuare in modo sempre più tempestivo modifiche di forma e di funzioni che permettano diagnosi precoce della patologia. E ci sono strumenti come la stimolazione con corrente continua e a bassa intensità (TDCS) e la stimolazione magnetica transcranica (TMS) che dalle sperimentazioni in laboratorio si stanno facendo largo nel trattamento clinico del paziente. Studi scientifici dimostrano infatti con crescente evidenza che queste applicazioni al cervello di campi magnetici e stimoli elettrici non invasivi promuovono determinati fattori di crescita che a loro volta aumentano la plasticità cerebrale del soggetto e le sue funzioni cognitive, tra queste anche la memoria, centrale per la patologia in questione.
Infine si è fatto largo negli ultimi anni nella ricerca sull’Alzheimer il concetto di “riserva cognitiva”. Ci spiega il Prof. Caltagirone: “Studi scientifici hanno dimostrato che quanto più un soggetto presenta livelli di scolarizzazione elevati e una molteplicità d’interessi e attività che stimolano le funzioni cognitive e le relazioni sociali, tanto più questa riserva cognitiva può contrastare l’insorgere e l’evolversi della patologia. Allo stesso tempo le funzioni cognitive possono essere stimolate anche attraverso esercizi neuroriabilitativi tesi a stimolare facoltà come la memoria e l’attenzione”. Progetti di ricerca nazionali ed europei portati avanti dai ricercatori della Fondazione hanno condotto su questo fronte allo sviluppo di piattaforme computerizzate come “Sociable”, utilizzate oggi nei normali percorsi di neuroriabilitazione rivolti ai pazienti ricoverati.
Una verità tuttavia non può essere taciuta. Allo stato attuale della ricerca l’obiettivo di debellare la malattia di Alzheimer appare ancora lontano, mentre si lavora con maggiori probabilità di successo per riuscire a contrastarne o fermarne lo sviluppo. “Non è un obiettivo secondario – ribatte il Prof. Caltagirone – La fase più disabilitante della Malattia, dove insorgono i sintomi di demenza, si manifesta nella fase finale del ciclo di vita di una persona. Occupa mediamente gli ultimi dieci anni. Se con diagnosi precoci e terapie in grado di rallentarne lo sviluppo, noi riusciamo a ritardare l’esordio di questa fase di quattro, cinque o sei anni, abbiamo come effetto che le persone malate e i loro famigliari possano dover sopportare la fase grave per un periodo non di dieci anni, ma sensibilmente inferiore”.
E mentre la ricerca continua, anche in questo caso conta la prevenzione, con attenzione ad alimentazione e stili di vita corretti e a tenere vivi i propri interessi culturali e le relazioni sociali in una fase della vita ogni tanto esposta al rischio di trascurarli.